Erano uno più terribile dell’altro, e non facevano che minacciare, malmenare, gridare come ossessi e come indemoniati. Una guardia repubblicana, a cui non era sfuggito l’alto valore d’un bel paio di scarponi di tutto cuoio, quasi nuovi, calzati dal Matteini Emanuele, rivolto ad un suo collega, un brutto ceffo che sembrava evaso in quel momento dal bagno penale, disse: “Guarda che bellezze di scarpe. E le mie sono rotte. Ma appena gli avremo fatto la pelle, in quattro e quattro otto gliele tolgo e me le metto”. Non erano mai soddisfatti quei manigoldi; non cercavano che di rubare, rubare e rubare.
Ed eran carichi di ogni ben di Dio, quei ladri. (testimonianza di Settimio Andrei, in M. Magnani, 1945) |
La tragica farsa del processo si concluse con l'assoluzione di Biagi, Corsetti e i due sardi. Gli 11 ragazzi furono condannati alla pena di morte mediante fucilazione ma non furono immediatamente informati; capirono che il loro destino era segnato vedendo i preparativi del plotone dalle finestre. Si radunarono intorno al crocifisso appeso alla parete dell'aula e recitarono una preghiera.
I genitori dei fratelli Matteini, sopraggiunti a Maiano Lavacchio non appena informati del rastrellamento, furono allontanati; la madre di Emanuele e Corrado, Dora, tentò di salvarli dicendo di aver indotto lei i figli alla renitenza, implorando pietà e chinandosi per baciare i piedi di Pucini: fu minacciata di fucilazione e allontanata malamente. Pucini respinse con violenza anche Attilio Sforzi, il ragazzo più giovane, che lo supplicava di salvarlo ricordandogli che il padre era del suo stesso paese. La tragicità della strage di Maiano Lavacchio sta anche nelle sue modalità: non uccisione alla macchia, o in luoghi lontani dall'abitato, ma addirittura in presenza delle famiglie delle vittime, con una mancanza di pietas verso il dolore delle persone coinvolte che fu la cifra della successiva condanna morale degli assassini e motivo di biasimo all'interno dello stesso PFR. Dora Sandri Matteini, madre di Lele e Corrado (Archivio C. Barontini)
|
Dora e Agenore Matteini negli anni Sessanta (Archivio C. Barontini)
|
Nei pochi minuti che separarono la condanna a morte dall'esecuzione, Antonio Brancati e i fratelli Matteini dedicarono un pensiero alle proprie famiglie. Il primo si premurò di lasciare una lunga lettera ai genitori (scritta qualche giorno prima secondo la testimonianza di Franca Andrei in C. Barontini, F. Bucci, 2003), pregandoli anche di ricordarsi dei signori Matteini che lo avevano amato come un figlio. La lettera, poi pubblicata nel volume "Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana", rimane quale testamento spirituale di un giovane che Francesco Chioccon, in occasione della traslazione della salma nel paese natale, definì "testimone di una scelta di civiltà".
Secondo quanto riportato da Salvatore Brancati, nipote di Antonio, la lettera pervenne alla famiglia tramite il commissario di PS Sebastiano Scalone, collega e conoscente del padre di Antonio, Giovanni Brancati, maresciallo di PS. Scalone fu uno degli autori della strage e fu in seguito condannato. L'originale della lettera di Antonio Brancati
Credits: www.ultimelettere.it, Istituto Naz. F. Parri di Milano |
Carissimi Genitori
Non so se mi sarà possibile potervi rivedere, per la qual cosa vi scrivo questa lettera. Sono stato condannato a morte per non essermi associato a coloro che vogliono distruggere completamente l’Italia. Vi giuro di non aver commessa nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all'Italia, nostra amabile e martoriata Patria. Voi potete dire questo sempre a voce alta dinnanzi a tutti: se muoio, muoio innocente. Vi prego di perdonarmi se qualche volta vi ho fatto arrabbiare, vi ho disobbedito, ero allora un ragazzo. Pregate solo sempre per me il buon Iddio. Non prendetevi parecchi pensieri, fate del bene ai poveri per la salvezza della mia povera anima. Vi ringrazio per quanto avere fatto per me e per la mia educazione. Speriamo che Iddio vi dia giusta ricompensa. Baciate per me tutti i miei fratelli Felice, Costantino, Luigi, Vincenzo e Alberto e la mia cara fidanzata. Non affliggetevi e fatevi coraggio, ci sarà chi mi vendicherà. Ricompensate e ricordatevi finché vivrete di quei Signori Matteini per il bene che mi hanno fatto, per l’amore di madre che hanno avuto nei miei riguardi. Io vi ho sempre pensato in tutti i momenti della Giornata. Dispiace tanto che non ci rivedremo in questa terra, ma ci rivedremo lassù, in un luogo più bello, più giusto e più santo. Ricordatevi sempre di me. Un forte bacione Antonio Sappiate che il vostro Antonio penserà sempre a voi anche dopo morto e che vi guarderà dal cielo. |
Cantavano, sì sì,si sentiva cantare, cantavano mentre andavano via, tutti in fila su per la cosa [la strada, ndr] e poi lì tutto lo strazio, berci, cose, nemmeno ci si rese conto di quello che cosava, però cantavano
(testimonianza di Maria Andrei, in C. Barontini, F. Bucci, 2003) |
...caddero di schianto, uno sull'altro, ammucchiati, rami rinsecchiti dal sole e divorati dal fuoco crepitante. Improvvisa una folata piena di colombi si aprì in verticale dai coppi rossastri del tetto grande, e volò di traverso su Montebottigli. La gente stordita seguì il volo, lontano, finché gli occhi poterono vedere tra il verde del forteto; uno spettro, l’elmetto nero traballante sugli occhi, dall'angolo del caseggiato vide saltar fuori il Cariti che tirava l’organetto a bottoni; e cantava a gola piena un’aria siciliana incomprensibile, colma di mestizia, di scherno, di passione carnale, di odio e di vendetta: innaturale.
(G. Gianni, "All'ombra delle stelle") |
La colonna fascista ripartì trasportando sui carri tutti i beni razziati dai poderi, non prima di aver dato l'ordine di seppellire i corpi in una fossa comune sul posto. Francesco Biagi ed Ermenegildo Corsetti furono costretti a seguirli fino a Poggio Cavallo. Giunti nei pressi del podere “Valderigo”, i fascisti De Anna e Pucini picchiarono selvaggiamente Giovanni Andreini, proprietario di Poggio Cavallo, scambiandolo per un partigiano. Colpito alla nuca da Pucini con il calcio del fucile, fu soccorso da due infermieri tedeschi, presenti su di un carro. De Anna beffardamente affermò di aver deciso di risparmiargli la vita solo perché ne avevano già uccisi undici e non volevano ammazzare il dodicesimo.
|
Il 22 marzo 1944, verso le ore 11,30, nella mia abitazione, loc. Poggio Cavallo, Podere Frantoio Vecchio, in occasione di un rastrellamento effettuato dalla milizia nella zona, la mia casa era stata piantonata sin dalla notte da due militi, allo scopo di non far uscire di casa nessuno. Nella suddetta casa mi trovavo alla finestra, quando uno dei militi di piantonamento certo Santucci Anselmo, vedendo diversi militi che ritornavano dal rastrellamento e fucilazione degli undici patrioti, chiamò “Cugio” vieni qua, un milite si staccava dal gruppo avvicinando il Santucci. Questi gli domandava se avevano trovato i partigiani e se avevano fatto resistenza, mentre il “Cugio” rispondeva che li avevano trovati in due capanne mentre dormivano e li avevano svegliati a pedate, e ripensando alla scena, gli veniva da ridere.
(ASGR, Fondo Questura, b. 414 CPC, f. Benocci Azelio. Denuncia alla Questura di Grosseto di Isola Conti Minucci, 7 febbraio 1946) |
Dopo la fucilazione e la partenza dei fascisti, continuò lo strazio dei parenti e degli amici. Dora Matteini si disperava sopra i cadaveri dei due figli; Palmira Guidoni continuava ad abbracciare il corpo martoriato del figlio SIlvano.
All'ordine di sepoltura nel luogo dell'uccisione non fu dato seguito. Le salme furono trasportate al cimitero del paese su 5 carri per dar loro una degna sepoltura. Sul ponte d'Istia due fascisti tentarono di far tornare indietro il corteo dicendo che i corpi andavano sepolti sul luogo dell’eccidio, trovando l'ostilità di Agenore Matteini, padre di Lele e Corrado, che si scagliò contro di loro dicendo che lui non aveva più niente da perdere e che li avrebbe buttati nell'Ombrone. Il parroco di Istia d'Ombrone, Don Omero Mugnaini, che aveva organizzato il recupero dei corpi e guidava la spedizione dei carri verso Istia, replicò seccamente ai fascisti: «Voi occupatevi dei vivi, che dei morti me ne occupo io». Adolfo Turbanti, relazione su Don Omero Mugnaini al convegno on line "Don Aldo Mei e gli altri. Rassegna video sul clero e la Resistenza" dell'Istituto storico della Resistenza di Lucca, 4 agosto 2020
|
Un testimone, Ernesto Simoni, adolescente all'epoca dei fatti, alcuni anni fa ha aiutato a ricostruire il sentiero percorso, diverso dalla strada che congiunge oggi Istia a Maiano Lavacchio.
|
Il porto d'armi di Attilio Sforzi forato da uno dei proiettili (Archivio della famiglia Sforzi/Grilli)
|
La casa dei Matteini, che si trovava di fronte al ponte d'Istia, fu usata come camera ardente. I corpi furono ricomposti. In una tasca di Attilio Sforzi fu ritrovato il suo porto d'armi forato da un proiettile. In paese il fabbro Polidoro Pastorelli e il falegname Emilio Baldassarri lavorarono tutta la notte per preparare le casse di legno e zinco, incuranti delle minacce dei fascisti, che arrivarono addirittura a ordinare ai fiorai di Grosseto di non vendere fiori. I corpi furono tumulati al cimitero di Istia, la popolazione inondò la cerimonia e le bare di rami di mimose. Tutto il rito funebre si svolse sotto lo stretto controllo dei nazifascisti.
|
Fosco Tarsi racconta nelle sue memorie, pubblicate nel 2003, di essere stato lui a stampare il manifesto di Ercolani del 31 marzo; Tarsi, allora diciannovenne, lavorava infatti presso la tipografia Ombrone, di cui era cliente la Prefettura. La rabbia fu tale che lui e un collega stamparono clandestinamente alcuni striscioni "contro" che poi appesero di nascosto in città. Intervistato nel dicembre 2013 da Corrado Barontini, Tarsi confermò l'episodio: insieme al collega ventenne Mario Pascucci composero la scritta "ASSASSINI" usando caratteri di legno di stampa ottocentesca (che poi furono bruciati) e col favore della notte affissero gli striscioni in piazza del Sale a Grosseto attaccandoli con una colla fatta a mano di farina e acqua.
|
F. Tarsi, Un settantottenne...racconta, 2003
|
Esiste anche un’interpretazione di parte fascista della vicenda, fornita dal tenente della GNR Vito Guidoni, in un volume pubblicato a cura dell’Associazione dei familiari delle vittime fasciste repubblicane. Vi si conferma l’assenza di azioni militari da parte dei giovani, considerati però già inquadrati in formazioni partigiane, tesi come si è visto smentita dai documenti e dalle testimonianze. Gli 11 uccisi vengono definiti «sfortunati giovani», che forse potevano esser salvati da un adeguato servizio d’informazioni delle bande, quasi ad azzerare la responsabilità dei fascisti per addossarla agli antifascisti male organizzati. La fucilazione è dapprima definita una «rigida applicazione di norme preesistenti» (forse in riferimento al decreto di Mussolini del 18 febbraio), poi «errore politico», rilevato all'epoca dei fatti anche da alcuni fascisti, tant'è che nell'assemblea del PFR grossetano del 26 aprile si verificarono fratture nette, che portarono ad accuse di disfattismo, di tradimento e all'arresto del fascista dissenziente Vezio Vecchi.
Si avverte, nelle parole di Guidoni, la sensazione che sia stato compiuto un errore destinato a influire sul futuro del fascismo repubblicano grossetano, in termini di consenso e credibilità, spingendo molti giovani all'ingresso nelle bande partigiane. Inverosimile è l’affermazione secondo la quale «la presenza di un ufficiale superiore avrebbe forse evitato le fucilazioni». Sfuggono a Guidoni la preparazione della cattura disposta dalle massime autorità fasciste, il ruolo del federale Monti e del commissario prefettizio Pucini nella condanna a morte, l’elogio scritto da Ercolani per il "brillante fatto d'armi". Non supportata da nulla, invece, la tesi di una divergenza di opinioni durante il "processo" sulla sorte dei prigionieri; i testimoni Biagi e Corsetti, presenti nella scuolina, non riferirono mai di opinioni discordanti tra i “giudici” fascisti. Guidoni tende a minimizzare anche il dispiegamento di mezzi e uomini per il rastrellamento, che invece ammontavano ad almeno 140 uomini armati di 5 differenti reparti militari di fronte a 12 giovani che si sapevano essere inoffensivi perché la spia Raciti aveva avuto modo di accertarsene. Non è quindi possibile interpretare la strage di Maiano Lavacchio come errore nella catena di comando o casuale ricorso a un uso eccessivo della forza: fu azione di “terrore preventivo”, nel tentativo di rompere il vincolo di solidarietà tra i rurali e i “ribelli” e spingere i giovani ad arruolarsi per la RSI. Anche se, è chiaro, di errore strategico si trattò, dal momento che la strage sortì l’effetto opposto rispetto a quello auspicato. |
[…] Nell'assemblea del Fascio repubblicano riunitasi in Grosseto il 26 aprile u.s. fu da me criticato e biasimato nel noto memoriale l’operato dei maggiori esponenti del fascio repubblicano di Grosseto, operato che culminò nei fatti arbitrari che determinarono l’uccisione degli 11 giovani di Istia. Queste accuse da me fatte, accordate e sostenute dal Rag. Ugo Salvatici e da Franco Renato, ebbero per conseguenza il mio arresto durato 20 giorni, che terminò per l’attivo interessamento dei suddetti che per un periodo di tempo furono tenuti sotto sorveglianza e tacciati di antifascismo e di disfattismo.
Dichiarazione di Vezio Vecchi alla Questura di Grosseto (30 giugno 1944) […] Tornato a Grosseto mi proposi il compito di moderare gli eccessi fanatici dei dirigenti e mi fu proposto di proseguire l’opera da me svolta precedentemente a favore dei mutilati.
Accettai così la carica apolitica di Presidente dei Mutilati. Non ho mai consigliato azioni violente, né partecipato ad esse, anzi, quando è stato in mia facoltà, ho cercato di consigliare alla moderazione i più fanatici e quando ho potuto, ho avvertito giovani renitenti alla chiamata militare di cui conoscevo il luogo di imboscamento. A proposito della fucilazione degli 11 giovani di Istia dichiaro che biasimai apertamente tale fatto all'Assemblea riunitasi in Grosseto il 26 aprile e per tale motivo fui tacciato di disfattismo e sorvegliato per del tempo. Mi sono adoperato in ogni modo per la scarcerazione di Vecchi Vezio, trattenuto in prigione per aver fatto l’istanza per scritto, condividendo i miei sentimenti nella detta Assemblea». Dichiarazione di Ugo Salvatici al CPLN (28 giugno 1944) |