Nella ricostruzione del contesto in cui avvenne la strage e nella comprensione del clima dei mesi che prepararono questo e altri drammatici eventi, è indispensabile tenere presente il ruolo del mondo contadino che, dopo aver aiutato e protetto sbandati, renitenti ed ex-prigionieri alleati, divenne poi la “retrovia” del movimento partigiano, fornendo approvvigionamenti e uomini disposti a combattere, rifugi e informazioni vitali. Le bande partigiane seppero guadagnarsi le simpatie dei rurali anche per la loro lotta al sistema degli ammassi voluto dai fascisti - ammassi che spesso i partigiani requisivano per ridistribuire viveri alla popolazione - e per la creazione di squadre di difesa contro le razzie tedesche. Nel gennaio 1944 in alcuni territori, come ad esempio Principina e San Lorenzo, i rurali si organizzarono addirittura in gruppi di assistenza alle bande.
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[…] quando la banda incominciò a farsi numerosa, l’alimentazione ci veniva fornita gratuitamente da contadini, partigiani, fattorie ecc.
(ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 797, f. Relazioni della Resistenza, Relazione della banda “Tigrotti di Maremma” di Baccinello) [...] La formazione ha sempre vissuto coi viveri donati dai proprietari e contadini della zona e catturando alcuni autocarri carichi di viveri destinati alla GNR e alle truppe tedesche. (ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 797, f. Relazioni della Resistenza, Relazione della Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” di Roccastrada) |
COMUNE DI MASSA MARITTIMA
A TUTTI I RURALI DI MAREMMA Affinché i rurali ne traggano regole di comportamento e non siano inutilmente tratti in inganno dalla propaganda nemica, pubblichiamo il seguente appello del Capo della Provincia: È necessario che tutti i rurali di Maremma, ingannati da una propaganda falsa e bugiarda sappiano chi sono coloro che, sotto il manto del Patriottismo, si atteggiano a futuri salvatori del popolo Italiano. Essi sono i fuggiaschi di tutte le razze, negri, neo-zelandesi, russi e simili, quei prigionieri ai quali si sono uniti ex Ufficiali Italiani di dubbia moralità civile e che cercano di sfuggire alla giustizia, atteggiandosi a grandi patrioti. I partigiani sono gli attuali svaligiatori di case, gli assassini dell’imboscata, i fratelli di coloro che distruggono con i bombardamenti le nostre città, macchiandosi del sangue delle nostre donne e dei nostri ragazzi. Poiché le bande si sostengono con i viveri che vengono forniti dai Rurali di Maremma, è opportuno si sappia che chi aiuta i partigiani si rende complici di essi, quindi passibile delle più gravi pene, è necessario che si sappia che qualora i rifornimenti non finiscano, il Comando Germanico troncherà il male della radice, adottando i più severi provvedimenti. Qualunque denunzia di appartenenti a bande sarà trattata con la massima Riserva dagli Uffici Tedeschi e compensata con un premio di £ 1800. Ogni omissione di denuncia sarà punita dal Tribunale. IL CAPO DELLA PROVINCIA: f.to Alceo Ercolani Massa Marittima lì 13 Aprile 1944 - XXII |
Alla paura era subentrato l’odio, alla pietà per i ribelli il senso più vigoroso d’una causa comune da sostenere anche con le armi. La patria, da concetto astratto e lontano, da privilegio delle classi dominanti, stava così discendendo lentamente in ogni casolare o in ogni vallata, si andava identificando sempre di più con la difesa della propria vita e dei beni necessari per l’esistenza. I contadini delle Alpi e dell’Appennino cominciano a sentire quei nuclei di ribelli come il proprio esercito…
(R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana) |
Un episodio che sarebbe stato citato da Piero Calamandrei (Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1955) come esempio di coraggiosa difesa della legalità e di umanità di un giovane magistrato – il pretore di Massa Marittima Giuseppe Donato De Marco – è una delle tante prove di come Alceo Ercolani interpretò il suo ruolo. De Marco rifiutò di arrestare i familiari dei renitenti alla leva, considerati non perseguibili dalla legge italiana. Il suo gesto fu definito «atto di sabotaggio» e il capo della Provincia dispose subito indagini sul conto del pretore “ribelle”, arrivando a segnalarlo al Ministero dell'Interno per provvedimenti in quanto <<uomo infido che sarà bene eliminare al più presto>> (ACSR, Min. Int. RSI, Segreteria particolare del capo della Polizia, b. 60).
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Il prestare le carceri giudiziarie per la detenzione di innocenti è atto contrario alla legge e al costume italiano. Dacché servo lo Stato nell'amministrazione della Giustizia non ho mai fatto nulla di contrario alla mia coscienza. Dio mi è testimone che non v’è nessuna iattanza nelle mie parole.
(ASGR, R. Prefettura, b. 772, lettera del pretore di Massa Marittima De Marco al capo della Provincia Ercolani (21 gennaio 1944) |
I provvedimenti fascisti scatenarono rivolte spontanee popolari, che videro in prima linea parenti e amici dei renitenti, una disobbedienza di massa ad autorità considerate illegittime. Nei primi due mesi del 1944 molti furono questi episodi di resistenza in tutto il territorio provinciale: il 20 gennaio 1944 un centinaio di donne davanti alla caserma di Montieri manifestò per chiedere il rilascio di 13 persone, arrestate perché genitori di renitenti; la reazione a fuoco fascista provocò due morti e numerosi feriti. Lo stesso giorno a Civitella Marittima circa 150 persone si ribellarono ai controlli sui renitenti alla leva disposti dai carabinieri; il 23 gennaio a Torniella 60 donne chiesero il rilascio della madre di un renitente di fronte alla caserma della GNR. E ancora: il 25 gennaio a Santa Fiora 60 persone si radunarono di fronte alla caserma dei carabinieri per ottenere il rilascio di 3 renitenti; i militari lanciarono bombe a mano che ferirono 2 civili. Il 29 gennaio a Montebono di Sorano 2 carabinieri alla ricerca di renitenti di leva furono disarmati dai partigiani; l'8 febbraio a Scansano ci furono spari contro 2 militi della GNR che accompagnavano un renitente in caserma; ancora fuoco il 16 febbraio alla Castellaccia, nel territorio di Campagnatico, su 2 militi della GNR che consegnavano le cartoline-precetto.
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Vi porto a conoscenza che il giorno 22 c.m. mi sono recato insieme al Ten. della GNR Pini Angelo e 15 guardie di questo presidio, per un giro di propaganda nei paesi del Comune di Sorano, e precisamente a S. Quirico, San Giovanni delle Contee, Monte Vitozzo, Castell’Ottieri. Lo scopo della visita in questi paesi oltre che alla propaganda politica l’ho rivolta ad opera di persuasione verso i renitenti di leva che fino a quel giorno non avevano risposto alla chiamata. In ogni paese ho radunato il popolo non esclusi i parroci, ho impartito ordini avvertendoli che se il giorno 23 non si fossero presentati sarei tornato per dar fuoco al paese. Questa intimidazione ha avuto l’effetto voluto in quanto oggi 23 c.m. si sono presentati numero 26 giovani.
(ASGR, R. Prefettura, b. 772, f. Ministero della Giustizia. Rapporto del commissario del Fascio repubblicano di Pitigliano Angelo Azzi sull'azione del 23 marzo 1944) |
Anche per i ragazzi che furono fucilati a Maiano Lavacchio la permanenza alla macchia fu possibile proprio grazie al sostegno delle famiglie contadine della zona compresa tra la fitta boscaglia di Monte Bottigli e Maiano Lavacchio, frazione collinare del Comune di Magliano in Toscana, al confine con il Comune di Grosseto, coperta in parte dalla macchia e disseminata da molti appezzamenti poderali. I fatti tra il 20 e il 22 marzo si dipanano tra una manciata di poderi, più o meno grandi: gli “Ariosti” dove viveva Maria Tonini Biagi coi figli Giuseppe, Francesco, Adelmo e Angiolo; il “Lavacchio” tenuto dai Corsetti, mezzadri dei Colonna; l’“Appalto” (Sant’Antonio) di Settimo Andrei e Teresa Biagi, luogo di ritrovo della comunità in quanto scuola rurale, bottega e sala da ballo; la “Sdriscia” della famiglia Matteini; il “Bonzalone” del professor Cesare Andrei. All'epoca la zona era isolata e difficilmente raggiungibile per l’assenza di strade, luogo adatto come nascondiglio di renitenti e di disertori, che potevano contare sulla generosa ospitalità contadina per il sostentamento.
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I ragazzi vissero a Maiano Lavacchio tranquillamente, svolgendo mansioni agricole nei vari poderi e ricevendo in cambio vitto e alloggio. Tutto questo fin verso la fine di febbraio, quando i bandi fascisti, diffusi ovunque, divennero sempre più minacciosi, arrivando a prevedere, come si è visto, la pena di morte per le famiglie che ospitavano prigionieri di guerra, renitenti e disertori. Dopo l’8 marzo 1944, data limite di presentazione per renitenti e disertori stabilita dal decreto di Mussolini, i giovani decisero di trasferirsi nelle macchie di Monte Bottigli, dove avevano costruito due capanne. Continuavano comunque a spostarsi di giorno verso Istia e tra i poderi per rifornirsi di provviste e per mantenere un contatto con le famiglie, cosa che probabilmente destò sospetti e puntò su di loro i riflettori delle autorità fasciste.
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In merito ai rapporti dei giovani di Maiano Lavacchio col movimento partigiano, troviamo informazioni che sembrano confermare contatti con Angiolo Rossi e Pietro Verdi del Comitato Militare. Al vaglio sarebbe stata la disponibilità dei giovani ad entrare in una banda partigiana che avrebbe dovuto essere posta sotto il comando del tenente Antonio Lucchini, all'epoca nel VII Gruppo Bande nella zona di Montauto (Manciano); Lucchini avrebbe dovuto trasferirsi a Monte Bottigli proprio nei giorni 24-25 marzo. La strage di Maiano Lavacchio fece slittare la costituzione effettiva della formazione, al cui comando fu infine posto il carabiniere Fiorenzo Pellicci. Sulla possibile scelta partigiana sono possibili solo congetture, sta di fatto che da testimonianze di familiari e amici emerge con forza la scelta di Resistenza civile e non in armi dei ragazzi. |
Per non mettere in pericolo i coniugi Matteini, che amorevolmente li avevano accolti e trattati come figli, si nascosero alla macchia anche due soldati sbandati che non erano riusciti a passare il fronte e tornare a casa dopo l'8 settembre: Antonio Brancati, nato il 21 dicembre 1920 a Ispica (Ragusa), maestro elementare, iscritto alla Facoltà di Medicina, allievo ufficiale di fanteria, e Alfonso Passannanti, nato il 28 settembre 1922 a Serre (Salerno), anch'egli maestro elementare e studente universitario, allievo ufficiale del Regio Esercito. Del clima di convivenza affettuosa tra i 4 giovani rimangono a testimonianza alcune fotografie che li vedono ritratti in gruppo.
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1-2: Antonio Brancati
3: Squadra di calcio di Ispica; Antonio Brancati è il quarto in piedi da destra 4-8: Alfonso Passannanti 9: Sul retro di una foto la dedica di Alfonso Passannanti (Archivio della famiglia Passannanti) (Credits: 1-3: Archivio famiglia Brancati; 4-9: Archivio famiglia Passannanti) |
Erano invece di Istia d'Ombrone Silvano Guidoni, nato il primo gennaio 1924, studente di ragioneria, renitente alla leva, e Alcide Mignarri, nato il 21 giugno 1924, operaio alla fornace di San Martino. Due episodi influirono sulla scelta di renitenza di quest'ultimo: un brutale pestaggio ad opera dei fascisti sul finire degli anni Trenta e la morte del fratello Pietro nella disastrosa campagna di Russia. Soldato del VII Battaglione di artiglieria di stanza a Pisa dal 1942, Mignarri era tornato a casa dopo l'8 settembre ben intenzionato a non riprendere le armi.
Di Istia anche Alvaro Minucci, nato il 16 ottobre 1924, figlio di un antifascista già in passato tenuto sotto stretto controllo dal regime. Il no alla RSI comportò per il giovane il passaggio alla vita in clandestinità: dopo l’8 settembre visse al “Frantoiaccio” di Poggio Cavallo, lavorò per Giovanni Andreini al “Valderigo”, per poi passare al podere “Sdriscia” dei coniugi Matteini, dove il padre aveva avuto in appalto un lavoro di scasso delle fosse per le vigne.
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1-3: Silvano Guidoni e un suo libro della V elementare
4- 5: Alcide Mignarri e Alvaro Minucci 6: Da sinistra in piedi Alfonso Passannanti, Corrado Matteini e Alvaro Minucci (Credits: 1, 3 e 6: Archivio C. Barontini) |
Di Grosseto erano invece Rino Ciattini, nato il 7 novembre 1924, operaio, e Attilio Sforzi, il più giovane del gruppo, nato il 7 febbraio 1925, studente di ragioneria; richiamati, entrambi si rifiutarono di imbracciare le armi per la RSI e furono spinti dalle famiglie, entrambe antifasciste, a nascondersi.
Attilio trovò riparo al podere "Appalto" degli Andrei, che erano amici fidati della madre. Pochi giorni prima della decisione di raggiungere gli altri ragazzi a Monte Bottigli, confidò a Teresa Biagi, moglie di Settimio Andrei, la volontà di lasciare il podere per proteggere non solo se stesso ma anche la famiglia Andrei, che generosamente lo aveva ospitato: "...io vado via perché se ci trovano, oltre a me danneggiano anche voi" (C. Barontini, F. Bucci, 2003). |
1-2: Attilio Sforzi
3-5: Alla memoria di Attilio Sforzi la Croce al merito di guerra (concessa nel 1965) e il certificato di patriota (Archivio famiglia Sforzi) 5: Rino Ciattini |
Di Cinigiano, invece, Alfiero Grazi (classe 1925), studente e renitente alla leva, caro amico di Silvano Guidoni. Dopo esser stato arrestato e deferito al Tribunale militare di Firenze in quanto renitente, riuscì a evadere dal carcere per nascondersi a Maiano Lavacchio.
Originario di La Spezia, il più grande del gruppo, Mario Becucci, 38 anni, era un decoratore, perseguitato politico. Dopo il 25 luglio era rimasto coinvolto in una rissa in un bar con i fascisti e successivamente aveva strappato la "cimice" che lo squadrista Inigo Pucini ancora ostentava all'occhiello; Pucini non aveva reagito ma due mesi dopo, dopo la nascita della RSI, era divenuto commissario prefettizio di Grosseto. Difficile pensare che non si ricordasse di Becucci quando se lo ritrovò davanti nelle macchie di Monte Bottigli. Dopo l'armistizio, Becucci era inizialmente sfollato a Cinigiano, paese di origine della moglie; il 27 febbraio del 1944 aveva contestato duramente una propagandista fascista e per questo era stato segnalato dal segretario comunale di Cinigiano al capo della Provincia e alla Questura di Paganico. Il 5 marzo 1944, una squadra armata di fascisti capitanata dal triumviro del PFR di Grosseto, Silio Monti, perquisì la sua abitazione in base a un mandato di arresto, ma Becucci riuscì a fuggire trovando riparo a Istia da Roberto Nuzzi, cugino della moglie. Denunciato alla Procura generale del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato per i reati di disfattismo politico, propaganda, apologia sovversiva o antinazionale e offesa all'onore del capo del Governo, Becucci decise di darsi alla macchia. Il 19 marzo si recò dapprima al podere “Ariosti” della famiglia Biagi per poi raggiungere gli altri ragazzi nella capanna di Monte Bottigli. |
Il segretario comunale di Cinigiano, vecchio squadrista Bellini, con l’aiuto di spie pagate del paese cominciò in segreto ad indiziarlo, raccogliendo tutto quanto il Becucci faceva e diceva. A suo tempo riferì tutto al Capo della Provincia ed alla Questura di Paganico da cui fu inviato a Cinigiano un Commissario per indagini che aggravarono naturalmente la situazione dell’accusato[…] Il 5 marzo si recarono in Cinigiano una squadra di fascisti guidati da Silio Monti ed armati di fucili e bombe a mano si recarono in casa Becucci che poté scappare, mentre in casa fu fatta minuziosa perquisizione […]. Prima di ripartire da Cinigiano il Monti lasciò il mandato di arresto per il Becucci che perseguitato così si recò per la campagna ad Istia d’Ombrone dove trovò fraterna ospitalità presso il cugino Nuzzi Roberto.
(AISGREC, Fondo CPLN, f. I Martiri d’Istia. Relazione su Mario Becucci e i compagni di Monte Bottigli, di Giselda Fabiani Becucci, moglie di Mario Becucci) 1: Alfiero Grazi
2: Mario Becucci |
Il rastrellamento dei giovani di Monte Bottigli fu organizzato dal capo della Provincia Ercolani, in collaborazione con il federale Silio Monti, uno dei triumviri della Federazione provinciale del PFR, e con il vice questore Liberale Scotti.
Il capo della Provincia incaricò l’agente ausiliario di PS Lucio Raciti, di origini siciliane, di svolgere indagini sui renitenti della zona di Maiano Lavacchio. Come testimoniano documenti conservati all'Archivio di Stato di Grosseto, Raciti si era prestato spesso, dietro laute ricompense, ad azioni di spionaggio e delazioni. La mattina del 19 marzo giunse al podere “Ariosti” dove incontrò Angiolo Biagi; si presentò come un reduce di Russia perseguitato dai fascisti e in cerca di ospitalità. Biagi, appena tornato dalla campagna di Russia, confidò nella buona fede di Raciti. Nel pomeriggio giunse allo stesso podere Becucci, intento ad unirsi ai giovani nascosti a Monte Bottigli. Sull'imbrunire dal bosco rientrarono anche due soldati sbandati sardi, Giovanni Pirìa e Luigi Careddu per pernottare; erano accompagnati da alcuni dei ragazzi di Monte Bottigli, che passarono dal podere "Ariosti" per poi proseguire verso il podere "Appalto" per la festa danzante di San Giuseppe. Raciti ebbe modo di incontrarli e conoscerli e di estorcere loro informazioni sulla dislocazione delle capanne nel bosco, sulla consistenza numerica del gruppo e sulla presenza del disertore tedesco. In serata Raciti e Becucci si ritirarono per dormire nella stessa stanza del podere "Ariosti", mentre gli altri ragazzi raggiunsero l'Appalto, dove Passannanti aveva invitato una ragazza che corteggiava e Corrado Matteini era atteso dalla fidanzata Lea Andrei. La festa danzante era rallegrata dalla fisarmonica di Tullio Barontini e finì verso la mezzanotte. I ragazzi tornarono alle capanne facendosi luce con delle lanterne. Il mattino seguente, Raciti disse a Becucci che in serata avrebbe raggiunto anche lui le capanne di Monte Bottigli, ma che prima doveva andare a Roselle per recuperare un moschetto e un sacco di farina. In realtà si recò a riferire le preziose informazioni ricevute a coloro che avrebbero poi organizzato il rastrellamento. Il giorno seguente i ragazzi di Monte Bottigli, constatato il mancato arrivo di Raciti, iniziarono a preoccuparsi. Pare che uno di loro abbia raccontato l’accaduto all'organizzatore partigiano Pietro Verdi, che avrebbe messo in guardia i ragazzi, diffidandoli dall'ospitare individui senza autorizzazione del CM (ANPI, In ricordo degli undici martiri fucilati il 22 marzo 1944 a Maiano Lavacchio, ANPI, Grosseto 1981). Aiutati da uno dei fratelli Biagi, per esigenze di maggiore sicurezza iniziarono a costruire un altro riparo in una zona più interna nel bosco, senza però riuscire a ultimarlo. Malgrado i sospetti su Raciti, non fu predisposta un’adeguata vigilanza alle capanne. |
[Raciti] fece effettivamente parte della polizia fascista. Ad un suo verbale, che io, insieme ad altri tre abbiamo letto si deve la morte di ben undici patrioti. Il prezzo della vita di questi uomini, fu di £ 4000, incassati da questa guida. Un maggior numero di morti si deve alle sue continue segnalazioni, alle quali non si poteva mai arrivare in tempo per parare…
(ASGR, Fondo Questura, b. 437 CPC, f. Raciti Lucio. Esposto di Giuseppe Gravagna alla Questura di Catania, 23 ottobre 1944). …cominciò a circolare la voce a Paganico che il Raciti Lucio non fosse estraneo all'accaduto, quale spia dei nazifascisti. Da allora il Raciti fu assai malvisto dalla popolazione ed anche noi avevamo poca simpatia per lui, essendoci anche accorti che disponeva di denaro. Allorché le truppe alleate si avvicinarono a Grosseto, la popolazione repubblicana si sbandò e non vidi più il Raciti, fuggito per ignote destinazioni.
(ASGR, Questura, b. 437 CPC, f. Raciti Lucio. Testimonianza di Giovanni Zaccaria alla Questura di Catania, 5 maggio 1945). |
Mentre una colonna si addentrò nella macchia guidata da Adelmo Biagi, Pirìa e Careddu, altri fascisti accerchiarono i poderi della zona per impedire che qualcuno avvisasse i giovani, facendo fallire l’attacco a sorpresa. Entrarono all'"Appalto" e perquisirono tutte le stanze. Una perquisizione fu effettuata anche al "Lavacchio", dove trovarono Bentivoglio Bezzini, un ex carabiniere sbandato, che si salvò solo perché per età i fascisti non sospettarono che fosse un disertore.
Al podere "Sdriscia" furono sorpresi altri due renitenti, Bruno Moschini e Galliano Bosi; si salvarono fingendo di essere due lavoranti che pulivano la stalla. Intorno alle 6 del mattino la colonna guidata dal capitano De Anna raggiunse le capanne, senza il tenente Müller e gran parte dei soldati tedeschi, tornati indietro con Adelmo Biagi prima dell’arrivo ai rifugi dei ragazzi. Accerchiate le capanne, il capitano De Anna intimò l’ordine di resa ai giovani che stavano dormendo e non opposero alcuna resistenza. Non c’è concordanza in merito al ritrovamento di armi: i familiari erano convinti che i giovani non ne disponessero; la cronaca del CPLN parla di 5 moschetti con una ventina di cartucce; nella lettera scritta dal questore Mancuso l’11 luglio 1944 e indirizzata al CPLN, si legge che furono ritrovati 5 moschetti senza caricatori (AISGREC, Fondo CPLN, b 17, f.2 Eccidio di Istia). Nel ricordo di Franca Andrei (C. Barontini, F. Bucci, 2003) durante la permanenza al podere Attilio Sforzi si trascinava dietro un fucile guasto che voleva accomodare: <<ci aveva messo una corda da macchina, di queste che ci si legava i balzi, e poi se l'era messo qui a spalla che andava su e lo trascinava a terra>>, tant'è che la stessa era solita dirgli <<lo vedi che è più alto di te!>>. Nonostante le discordanze sulla presenza di armi, la mancata vigilanza alle capanne e l’assenza di reazione al momento del rastrellamento confermano la sostanziale condizione di inermi e la volontà dei ragazzi di non combattere. |
Il disertore tedesco riuscì a scappare e a dileguarsi nella macchia, schivando gli spari dei fascisti. Falliti i tentativi di riprenderlo, le capanne furono date alle fiamme e gli undici ragazzi furono scortati sotto minaccia delle armi fino al podere "Lavacchio". Qui un garzone, Italo detto "Mezzetta", che puliva la stalla fu malmenato ferocemente senza motivo da Monti e De Anna. Al podere "Bonzalone" lo stesso trattamento fu riservato a Mario Becucci; un giovanissimo milite, evidentemente alterato, fu fermato da Pucini mentre stava prendendo la mira per sparare a un gruppo di operai, tra cui Tullio Barontini, che stavano lavorando per l'impresario di legnami Ciabatti.
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